Un’ossessiva ricerca dell’emozione

Intervista a Donato Di Zio - a cura di Giorgia Bernoni

Indagatore della psiche e delle sue recondite manifestazioni, l’artista presenta un corpus compatto orientato alla reiterazione del simbolo. Vertigine e morbide linee, fitte trame e cerchi aperti, contrasti netti di colore dati dall’uso spasmodico del bianco e nero. L’arte di Donato Di Zio presenta caratteristiche evidenti e particolarità ricorrenti, tuttavia è l’elemento dell’enigmaticità quello che maggiormente prevale osservando i suoi lavori. Un mistero che ben richiama la complessità del mondo interiore, universo a cui Di Zio rivolge la propria passione artistica. Se non è recente la ricerca intrapresa dall’artista abruzzese, ma fiorentino d’adozione, è fresca invece la donazione di sei acqueforti alla Biblioteca Marucelliana di Firenze: un gesto generoso che sottolinea lo scambio che ci dovrebbe essere più spesso tra artista e istituzioni. Con estrema disponibilità Di Zio racconta le emozioni che risiedono dietro il suo certosino e assiduo lavoro di indagatore scientifico.

GIORGIA BERNONI - In apertura del tuo catalogo curato da Gillo Dorfles scrivi: “L’origine della vita è un mistero, la mia arte indaga l’ignoto e l’immensa sfera emozionale dell’essere umano.” Spiegaci meglio cosa intendi?
DONATO DI ZIO - Trovo che la psiche dell’essere umano sia affascinante e complessa: presenta molte incognite, e riuscire a darne una visione chiara è assai difficile, forse impossibile, ma rivelarne un’infinitesima parte acquisendone consapevolezza è un arricchimento per la propria anima. Il bagaglio culturale che ognuno di noi si porta dietro è composto da innumerevoli fattori: vi è un lato legato alla sfera emozionale, poi bisogna rapportarsi con il quotidiano, vivere intensamente ogni attimo della vita, apprezzando appieno il passare del tempo che scandisce l’alternanza di relazioni e intime sensazioni. Emozioni legate al privato che a volte vengono dichiarate o celate tra gli infinitesimi segni delle mie opere, in parte svelate ma mai rivelate. L’uomo fin dalla sua comparsa ha dovuto soddisfare esigenze che si sono ripetute nel corso dei secoli, facendo tesoro delle scoperte precedenti per oltrepassarle e farne di nuove. Sono sempre stato attratto da chi ha incentrato la propria ricerca sull’uomo quale essere complesso, dagli studi di Sigmund Freud come dall’immensa opera di Dante Alighieri, la Divina Commedia. I miei lavori, sin dalla più giovane età, ruotano intorno alle innumerevoli pulsioni emozionali della psiche umana. Trovo che indagare sulle proprie origini e sull’origine della vita stessa sia una necessità. A volte mi accorgo, quasi inconsapevolmente, che nelle mie opere ritrovo brani o temi trattati in alcuni canti o terzine della Divina Commedia, o argomenti analizzati da Freud nei suoi scritti, non dando una descrizione visivamente didascalica, ma interpretando e interiorizzando le emozioni che suscitano in me, come nell’opera Gli orgogliosi: la creazione del pensiero contiene in sé innumerevoli pulsioni che si trasformano in emozioni anche con l’interazione di fattori esterni. Così, quando disegno, inizio dalla creazione di un’idea e da pochi segni; gli interventi successivi sono dettati dall’impulso e dall’istinto: in questo risiede il fascino della vita stessa e della sua creazione.

I tuoi lavori sono molto vari, dai disegni agli interventi in spazi urbani. C’e un filo che li lega?
Le mie opere indagano varie forme d’arte, come disegni, incisioni, progetti per interventi in spazi urbani, design, piatti o gioielli. Trovo che l’applicazione in diversi ambiti sia una ricchezza. Il filo conduttore che unisce tutte queste forme d’arte è il rigore nella ricerca del segno, svincolato da imposizioni, che agisce in totale libertà dando sfogo alla mia indole emozionale e creativa. Gillo Dorfles, a cui sono legato da profonda stima e amicizia, in una video-intervista rilasciata a Matteo Galbiati afferma che “la particolarità del lavoro di Di Zio è il segno da lui creato, con molta originalità, che viene ripetuto sia nei quadri, sia nelle tazzine, sia nelle decorazioni. Quello che conta, quindi, è soprattutto l’unicità e la peculiarità con cui ha affrontato questa forma di creazione segnica”.1

La tua arte dà un senso di vertigine: è un equilibrio questa eterna linea ondivaga?
Il senso di vertigine che si può avere nell’osservare alcune mie opere penso sia dato dall’apparente semplicità iniziale che viene meno nel momento in cui si osservano con più attenzione. La linea ondivaga si rincorre in maniera spasmodica creando un senso di equilibrio, non eterno ma mutevole. Scrive ancora Dorfles in un testo critico del 2006: “La natura di queste strutture è pur sempre quella del vortice, del groviglio, della marezzatura; ma è già possibile scorgere – almeno per chi sia al corrente delle famose ‘macchie di Rorschach’ – l’evidente presenza di nucleoli, di spirali, di embrioni pronti a trasformarsi in organismi indecifrabili eppure apparentati a una organicità palese, anche se criptica.”2

Quali sono i soggetti ricorrenti delle tue opere?
Prerogativa dell’uomo è di lasciare come eredità per i posteri un segno della propria esistenza. In molte mie opere è presente una forma che può ricordare l’ingrandimento al microscopio di uno spermatozoo: da parte mia è intesa come l’origine della vita, ed essa stessa è vita che, contaminandosi con altre forme, dà origine a nuovi impulsi senza mai arrivare a una fine. Ancora Dorfles scrive, in occasione della mia mostra antologica ospitata negli spazi museali dell’ex Aurum a Pescara nel 2011: “Partendo da quelli che erano soltanto dei grovigli di segni tracciati con l’inchiostro di china, si sono man mano trasformati in tracciati più complessi, in veri e propri arabeschi, fino ad acquistare una sorta di valenza globale adattabile alla decorazione di oggetti come alla costruzione di sagome a sé stanti e persino di embrionali figurazioni che mantengono la loro identità segnica pur sconfinando talvolta verso orizzonti ‘narrativi’ di cui non possiamo prevedere la sorte.”3 E Rita Levi-Montalcini, in una lettera del 17 giugno 2009, scrive: “Nel mondo cosmico della serie denominata Pelago, che indaga la vita in tutti i suoi molteplici e variegati aspetti, alcune opere possono ricordare dei microrganismi ingranditi al microscopio dove si ha la reale percezione della grandezza e della vitalità che regna nel cosmo, in questo trovo dell’assonanza con il mio operato, una ricerca costante che non avrà mai fine. […] Trovo che la scienza, la cultura e l’arte siano campi d’indagi ne che portano chi se ne occupa in maniera attiva ad avere una visione sempre più ampia della vita.” Nelle loro parole ritrovo la vera essenza della mia poetica e ricerca artistica.

Lavori in teatro come scenografo e costumista: Cosa ti appassiona dell’arte scenica?
Ho sempre disegnato e dedicato parte del mio tempo al teatro, inizialmente in diversi ambiti, poi firmando scene e costumi. Esprimermi tramite il disegno è per me un’esigenza primaria: da alcuni anni ho scelto di dedicare gran parte del mio tempo a realizzare le mie opere, anche se non ho abbandonato del tutto il teatro, luogo dove ancora lavoro. L’arte scenica in qualche maniera è la totalità di diverse forme d’arte che vengono ad assommarsi per dare vita a uno spettacolo. Il mio lavoro come artista è individuale e mi permette di potermi esprimere in totale libertà. In questo senso riesco a soddisfare appieno le mie emozioni, riuscendo così a rimanere autentico, e rapportandomi con gli altri solo in una fase successiva, quando l’opera è compiuta. Al contrario, nel teatro tutto deve essere mediato e, a volte, parte della propria creatività può venire meno: in questo trovo un senso di sofferenza.