La forma libera e viva del segno disegnato

Matteo Galbiati

Si tende a considerare la pratica del disegno e dell’incisione come un espediente accessorio e collaterale al lavoro e alla ricerca di un artista, quasi questa fosse determinata da una volontà secondaria e appartenesse a un universo parallelo e non integralmente corrispondente al linguaggio che caratterizza la personalità del loro esecutore. Anche il mercato tende ad attribuire un valore marginale – sia in termini economici, sia di contenuti, per quanto eccelsi, nel contesto di una produzione più o meno ampia e rappresentativa – alle opere su carta. Eppure questo insieme variegato ed eterogeneo di esecuzioni non è figlio di un dio minore; non è il prodotto di una fantasticheria indotta da un genius passeggero o limitato, che non coinvolge e pervade pienamente lo spirito di un artista, ma si inserisce pienamente nell’animo di chi lo esegue. La minor considerazione riservata a questa tipologia di lavori forse deriva dal fatto che chi crea pare mirare ad altro, e per questo negli studi, nei disegni preventivi, si vedono solo abbozzate le circostanze, le intuizioni o le visioni che, lasciate qui in nuce, trovano piena realizzazione e compiutezza nell’opera finale. Sia essa un dipinto, una scultura o altra realizzazione. Il segno-disegno diventa un appunto di passaggio, una traccia lasciata veloce per non far sfuggire la voracità e la grandiosità dell’intuizione. Tracciata prima che questa si spenga e consumi velocemente l’ardore della una fiamma, che illumina brevemente un percorso, la strada maestra che l’artista deve seguire. Segni rapidi scandiscono le dinamiche di una riflessione che sarà più meditata solo in un tempo successivo e per quello che le sarà più opportuno. Ma con una rotta già tracciata. In questo senso il disegno resta un passo indietro rispetto all’opera principale che da questo poi scaturisce nella sua veste formale definitiva.
Eppure ci sono artisti per i quali questa gerarchia precostituita non sembra valere o, addirittura, pare sovvertirne i gradi. Per molti di loro vale una regola opposta: il disegno è ben più di una parte preliminare o progettuale dell’opera finita. Si fa esso stesso voce indipendente e autosufficiente del loro linguaggio. I contorni di questo non sono allora immediatamente controllabili e si arriva a sondare territori ben più estesi e significanti di quelli suggeriti da una prima intuizione o idea. Le forme trascritte nella sveltezza del gesto ripropongono insperate verità, autonome ed espressivamente eloquenti. Diventano visioni puntualizzate e, per quanto automatiche e inconsce, colme di viva autenticità e, per questo forse, sentite con maggior convinzione come sincere e spontanee.
La ragione profonda di questo strumento nelle mani dell’artista spesso sfugge a lui stesso; trascende il suo controllo fino a rispondere a logiche interiori che non sarebbero altrimenti comunicabili. Una facoltà importante che apre il campo ad analisi ulteriori,sottili e puntuali, come l’energia espressa da questi disegni, frutto di una vibrazione emotiva incontrollabile. Il disegno, quindi, assume spesso una fisionomia indipendente e in sé bastante, e quel valore e quel senso, che in altri pare essere sempre all’ombra delle opere compiute, si ritaglia uno spazio complementare e indipendente.
Credo che questa prevalenza comunicativa del segno disegnato appartenga, per svariate ragioni, al fare di Donato Di Zio. Egli, come si evince innanzitutto dalla sua storia, disegna da sempre. Prima ancora di dipingere, di dedicarsi al design, alle arti minori, alla moda, al costume, alla scenografia. In fase di preparazione della mostra per la storica Biblioteca Marucelliana di Firenze, durante un nostro incontro preliminare presso la sua casa fiorentina dove aveva conservato i differenti materiali originali per tale esposizione, mi hanno colpito proprio i disegni più datati. Quelli dei tempi scolastici, quando questi diventavano il pretesto per la costruzione di universi paralleli: erano le sue vie di fuga salvifiche da opprimenti lezioni di matematica. Forse, con un modo allora ancora ingenuo nell’occasione e nella motivazione, Di Zio aveva già trovato con precocità e anticipo la sua vocazione, che proprio dalla volontà evasiva denunciava un forte senso di libertà. Il segno grafico si muoveva in una danza libera e non contenuta a descrivere forme sciolte, sinuose, aperte. Queste, non per la perizia e l’esperienza dell’artista, non per la caratterizzazione individuale del suo segno, sono, a mio avviso, considerevoli proprio per la loro forza ed energia liberatoria. Dirompono e irrompono sulla carta con guizzi incontrollabili a mappare quelle visioni irreali e fantastiche che si accendevano nei suoi occhi. Valgono come premonizione della maturità e compiutezza del segno cresciuto negli anni successivi, figlio di una pratica artistica mai abbandonata o trascurata, ma coltivata e assecondata. Fatta attecchire con intuito e caparbietà. Donato Di Zio ha continuato così a disegnare, a segnare la carta di mondi paralleli, affermando negli anni il suo talento e la vocazione artistica. Così lontana dallo sterile rigore matematico che a scuola gli si voleva a forza insegnare.
Di Zio ancora disegna, quindi, come atto liberatorio, automatico, imprescindibile e inderogabile. Ha seguito la traccia sincera impressa dal suo spirito. Un gesto geneticamente inciso nel suo essere, che non potrà mai alienare, o essere alienato, da sé. Osservando, infatti, l’incedere nel tempo delle sue opere, si evince chiaramente come in ciascuna di esse – anche in quelle che diventano per definizione pittura a tutti gli effetti – egli mostri una familiarità forte ed espressiva che rimane a legarle tutte assieme. Una caratteristica che va ben oltre l’imprinting artistico. Come detto, appartiene a una dimensione istintivamente naturale che non trova mai una sudditanza passiva al controllo della ragione. Si muove, il segno di Di Zio, e instancabile vaga nello spazio vuoto della carta, della superficie, del supporto al quale si vincola a riempire orizzonti figurali. Cerca di ritagliare una porzione finita dell’infinito cosmo di forme e immagini che popolano il suo pensiero.
Nello spazio circoscritto del foglio Donato Di Zio riesce a decifrare, facendo emergere da masse oscure e fitte dell’inchiostro, strutture, organuli, pianeti, arcipelaghi. Organizzazioni, addensamenti e rarefazioni che paiono materia viva in trasformazione. Sono l’albore prefigurale di forme definitive. Il segno disegnato, che permette il transito verso l’opera compiuta, si compie nella finita determinazione della sua carica immaginativa e liberatoria.
Donato Di Zio pesca nel profondo non solo dell’immaginazione, ma anche della coscienza. Non per niente Gillo Dorfles ha avuto modo di accostare, riflettendo in uno scritto critico dedicato a queste opere, le immagini dell’artista abruzzese alle celebri macchie di Rorschach. I disegni ambigui e apparenti che sono la base del test psicologico proiettivo, utile strumento di indagine sulla personalità, conducono a un contenuto la cui rappresentazione viene interpretata ed estrapolata secondo automatismi personali e peculiari dell’individualità come appartenenti a sfere immaginative differenti, quali quelle naturali – animali o vegetali – o liberamente astratte. Similmente Di Zio procura e induce a un processo analogo, sottoponendo lo sguardo alla sollecitazione forzosa nell’individuazione di composizioni che vogliono essere ora siderali, ora minerali, ora biologiche… Forse sono l’inizio di ogni qualsiasi figura, di qualcosa di sconosciuto e inatteso, che sembra prendere forma proprio sotto i nostri occhi. Qualcosa che però ancora non cogliamo bene.
Le carte tracciate di Donato Di Zio sono dominate da un segno staminale, ricettore di ogni forma possibile, che trova una sua chiarificazione e delineazione definitiva solo in un momento altro della visione e della comprensione, pur restando autosufficiente nel contesto del visibile. L’artista porta a un’instabilità vibrante da cui prende avvio il tutto della forma; riconduce a una fase germinativa, a uno stadio iniziale il segno, in cui ogni cosa cerca energicamente una sua soluzione finale. Il gorgo del segno disegnato da Di Zio, per questa sua propria caratteristica, non può che continuare a muoversi, ad animarsi, a descrivere a ogni passo un mondo invisibile in formazione.
Il suo disegno sembra la trascrizione di un’osservazione al microscopio o una proiezione telescopica. Si lavora nel micro e nel macrocosmo, dove ogni accadimento è indelebilmente chiaro e possibile e individua il germe di una forma che attende il libero compimento della sua foggia definitiva e stabile. Emergendo dal nero, che non né buio né morte, ma che conserva in sé tutta la forza prepotente della vita. E con essa si libera definitivamente anche dal suo segno. Vita, delle cui battute iniziali Donato Di Zio pare essere uno degli interpreti più fedeli.